Ultimo aggiornamento: 2024/07/01 16:30.È disponibile subito il podcast di oggi de
Il Disinformatico
della Radiotelevisione Svizzera, scritto, montato e condotto dal sottoscritto:
lo trovate
qui sul sito della RSI
(si apre in una finestra/scheda separata) e lo potete scaricare
qui.
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Buon ascolto, e se vi interessano il testo di accompagnamento e i link alle
fonti di questa puntata, sono qui sotto.
Questa è l’ultima puntata prima della pausa estiva: il podcast tornerà il 19
luglio.
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Gli appassionati di archeologia misteriosa li chiamano
OOPART: sono gli oggetti
fuori posto, o meglio fuori tempo. Manufatti che si suppone non potessero
esistere nell’epoca a cui vengono datati e la cui esistenza costituirebbe un
anacronismo. Immaginate di trovare una lavastoviglie o uno schema di sudoku
dentro una tomba egizia mai aperta prima: sarebbe un OOPART. In realtà i
presunti OOPART segnalati finora hanno tutti spiegazioni normali ma comunque
affascinanti.
In informatica, invece, esiste uno di questi OOPART davvero difficile da
spiegare. Questo oggetto apparentemente fuori dal tempo è un monitor gigante
per computer, a colori, ultrapiatto, ad altissima risoluzione, che misura ben
tre metri per sette ed è perfettamente visibile in piena luce. Prestazioni del
genere oggi sono notevoli, ma si tratta di un manufatto che risale a
sessant’anni fa, quando i monitor erano fatti con i tubi catodici,
pesantissimi e ingombrantissimi.
La cosa buffa è che questo anacronismo extra large è sotto gli occhi di
tutti, ma oggi nessuno ci fa caso. È il monitor gigante che si vede sempre nei
documentari e nei film dedicati alle missioni spaziali: il mitico megaschermo
del Controllo Missione.
13 aprile 1970. Il Controllo Missione durante una diretta TV trasmessa dal
veicolo spaziale Apollo 13. A sinistra si vede lo schermo gigante a
colori in alta risoluzione. A destra, la videoproiezione Eidophor a colori (NASA).
Come è possibile che la NASA avesse già, sei decenni fa, una tecnologia che
sarebbe arrivata quasi trent’anni più tardi? Tranquilli, gli alieni non
c’entrano, ma se chiedete anche ai tecnici del settore e agli informatici come
potesse esistere un oggetto del genere a metà degli anni Sessanta,
probabilmente non sanno come rispondere.
Questa è la strana storia di questo oggetto a prima vista impossibile e di una
serie di tecnologie folli e oggi dimenticate, a base di olio viscoso, dischi
rotanti e puntine di diamante, nelle quali c’è di mezzo un notevole pizzico di
Svizzera. Se il nome Fritz Fischer e la parola Eidophor non vi dicono
nulla, state per scoprire una pagina di storia della tecnologia che non è solo
un momento nerd ma è anche una bella lezione di come l’ingegno umano sa
trovare soluzioni geniali a problemi in apparenza irrisolvibili.
Benvenuti alla puntata del 28 giugno 2024 del Disinformatico, il
podcast della Radiotelevisione Svizzera dedicato alle notizie e alle storie
strane dell’informatica. Io sono Paolo Attivissimo.
[SIGLA di apertura]
Un oggetto impossibile
Se siete fra i tanti che in questo periodo stanno acquistando un televisore
ultrapiatto gigante in alta definizione, forse vi ricordate di quando lo
schermo televisivo più grande al quale si potesse ambire a livello domestico
era un 32 pollici, ossia uno schermo che misurava in diagonale circa 80
centimetri, ed era costituito da un ingombrantissimo, costosissimo e
pesantissimo tubo catodico, racchiuso in un mobile squadrato e profondo che
troneggiava nella stanza.* Sì, c’erano anche i videoproiettori, ma
quelli erano ancora più costosi e ingombranti. Magari avete notato questi
strani scatoloni nei film di qualche decennio fa. Oggi, invece, è normale
avere schermi ultrapiatti, con una diagonale tre volte maggiore,
che sono così sottili che si appoggiano contro una parete.
* Nel 1989 la Sony presentò in Giappone il televisore a tubo catodico
Trinitron più grande mai realizzato, il KV-45ED1 o PVM-4300 (43 pollici, 225
kg, 40.000 dollari in USA).
Eppure alla NASA, a metà degli anni Sessanta, su una parete del Controllo
Missione che gestiva i lanci spaziali verso la Luna, c’erano non uno ma ben
cinque megaschermi perfettamente piatti, nitidissimi, con colori
brillanti, visibili nonostante le luci accese in sala. Il più grande di questi
schermi misurava appunto tre metri di altezza per sette di larghezza. La
risoluzione di questi monitor era talmente elevata che si leggevano anche i
caratteri più piccoli delle schermate tecniche e dei grafici che permettevano
agli addetti di seguire in dettaglio le varie fasi dei voli spaziali.
Per fare un paragone, maxischermi come il
Jumbotron di Sony o i
Diamond Vision di Mitsubishi arriveranno e cominceranno a essere installati
negli stadi e negli spazi pubblicitari solo negli anni Ottanta,* e comunque
non avranno la nitidezza di questi monitor spaziali della NASA.** Certo, al
cinema c’erano dimensioni e nitidezze notevoli e anche superiori, soprattutto
con i grandi formati come il 70 mm, ma si trattava di proiezioni di pellicole
preregistrate, mentre qui bisognava mostrare immagini e grafici in tempo
reale. I primi monitor piatti, con schermi al plasma, risalgono anch’essi agli
anni Ottanta ed erano installati nei computer portatili di punta dell’epoca,
ma non raggiungevano certo dimensioni da misurare in metri e in ogni caso
erano monocromatici.
* Sony è famosa per il suo Jumbotron, ma fu battuta sul tempo dalla
Mitsubishi Electric, i cui megaschermi Diamond Vision furono prodotti
per la prima volta nel 1980. Il primo esemplare, basato su CRT (tubi catodici) compatti a tre colori (rosso, blu e verde) fu installato a luglio dello stesso anno al Dodger Stadium di
Los Angeles e misurava 8,7m x 5,8 m (Mitsubishi Electric).
** Un Jumbotron da 10 metri aveva una risoluzione di soli 240 x 192
pixel.
I primi schermi piatti a colori arriveranno addirittura trent’anni dopo quelli
della NASA, nel 1992, e saranno ancora a bassa risoluzione. Il primo
televisore a schermo piatto commercialmente disponibile sarà il Philips
42PW9962 (un nome facilissimo da ricordare), classe 1995, che misurerà 107
centimetri di diagonale e avrà una risoluzione modestissima, 852 x 480 pixel,
che oggi farebbe imbarazzare un citofono. Costerà ben 15.000 dollari
dell’epoca. Oggi dimensioni diagonali di 98 pollici (cioè due metri e mezzo) e
risoluzioni dai 4K in su (ossia 3840 x 2160 pixel) sono commercialmente
disponibili a prezzi ben più bassi.
Insomma, quella tecnologia usata dall’ente spaziale statunitense sembra
davvero fuori dal tempo, anacronistica, impossibile. Però esisteva, e le foto
e i filmati di quegli anni mostrano questi schermi all’opera, con colori
freschissimi e dettagli straordinariamente nitidi, nella sala ben illuminata
del Controllo Missione.
Per capire come funzionavano bisogna fare un salto a Zurigo.
Eidophor, il videoproiettore a olio
Per proiettare immagini televisive, quindi in tempo reale, su uno schermo di
grandi dimensioni, negli anni Sessanta del secolo scorso esisteva una sola
tecnologia: andava sotto il nome di
Eidophor
ed era un proiettore speciale, realizzato dalla Gretag AG di Regensdorf.
Era questo apparecchio che mostrava le immagini che arrivavano dallo spazio e
dalla Luna ai tecnici del Controllo Missione di Houston, e si trattava di un
marchingegno davvero particolare, concepito dall’ingegner Fritz Fischer,
docente e ricercatore presso il Politecnico di Zurigo, dove lo aveva
sviluppato addirittura nel 1939 [brevetto US 2,391,451], presentando il
primo esemplare sperimentale nel 1943. Se ve lo state chiedendo, il nome
Eidophor deriva da parole greche che significano grosso modo “portatore
di immagini”.
Questo proiettore usava un sistema ottico simile a quello di un proiettore per
pellicola, ma al posto della pellicola c‘era un disco riflettente che girava
lentamente su se stesso. Questo disco era ricoperto da un velo di olio
trasparente ad alta viscosità, sul quale un fascio collimato e pilotato di
elettroni depositava delle cariche elettrostatiche che ne deformavano la
superficie.
Uno specchio composto da strisce riflettenti alternate a bande trasparenti
proiettava la luce intensissima di una lampada ad arco su questo velo di olio,
e solo le zone del velo che erano deformate dal fascio di elettroni
riflettevano questa luce verso lo schermo, permettendo di disegnare delle
immagini in movimento.
Schema di funzionamento del velo d’olio e dello specchio a strisce, tratto da
Eidophor – der erste Beamer, Ngzh.ch, 2018.
Lo so, sembra una descrizione molto steampunk. E come tanta tecnologia
della cultura steampunk, anche l’Eidophor era grosso, ingombrante e
difficile da gestire. Usarlo richiedeva la presenza di almeno due tecnici e
un’alimentazione elettrica trifase, e se il velo d’olio si contaminava
l’immagine prodotta veniva danneggiata. Però la sua tecnologia completamente
analogica funzionava e permetteva di mostrare immagini televisive in diretta,
inizialmente in bianco e nero e poi a colori, su schermi larghi fino a 18
metri.
Nel 1953 l’Eidophor fu presentato negli Stati Uniti in un prestigioso cinema
di New York, su iniziativa della casa cinematografica 20th Century Fox, che
sperava di installarne degli esemplari in centinaia di sale per mostrare
eventi sportivi o spettacoli in diretta, ma non se ne fece nulla, perché
l’ente statunitense di regolamentazione delle trasmissioni non concesse le
frequenze televisive necessarie per la diffusione.
Negli anni Sessanta le emittenti televisive di tutto il mondo cominciarono a
usare questi Eidophor come sfondi per i loro programmi, specialmente nei
telegiornali e per le cronache degli eventi sportivi. Fra i clienti di questa
invenzione svizzera ci furono anche il Pentagono, per applicazioni militari, e
appunto la NASA, che ne installò ben trentaquattro esemplari nella propria
sede centrale per mostrare le immagini dei primi passi di esseri umani sulla
Luna a luglio del 1969.
Un Eidophor EP 6 chiuso e aperto. Era alto 1,97 metri, largo 1,45 e profondo 1,05 (Nationalmuseum.ch).
Gli Eidophor della NASA furono modificati in modo da avere una risoluzione
quasi doppia rispetto allo standard televisivo normale, 945 linee orizzontali
invece delle 525 standard, rendendo così leggibili anche i caratteri più
piccoli delle schermate di dati. In pratica la NASA aveva dei megaschermi HD
negli anni Sessanta grazie a questa tecnologia svizzera, che fra l’altro
piacque anche ai rivali sovietici, che installarono degli Eidophor anche nel
loro centro di lancio spaziale.
Ma per lo schermo gigante centrale della NASA neppure l’Eidophor era
all’altezza dei requisiti. Per quelle immagini ultranitide a colori era
necessario ricorrere ai diamanti e alla Bat-Caverna.
Diamanti e Bat-Caverne
Anche in questo caso la tecnologia analogica fece acrobazie notevolissime. Lo
schermo usava una batteria di ben sette proiettori, alloggiati in una enorme
sala completamente dipinta di nero e battezzata “Bat-Caverna” dai tecnici che
ci lavoravano.
Schema del sistema di proiezione, che mostra i grandi specchi usati per
deviare i fasci di luce dei proiettori e ridurre così le dimensioni della sala
tecnica.
Questi proiettori usavano
lampade allo xeno, la cui luce potentissima illuminava delle diapositive e le proiettava su
grandi lastre di vetro semitrasparente, che costituivano gli schermi veri e
propri. Ma il calore di queste lampade avrebbe fuso o sbiadito in fretta
qualunque normale diapositiva su pellicola, e i grafici dovevano invece
restare sullo schermo per ore.
Così i tecnici si inventarono delle diapositive molto speciali, composte da
lastrine di vetro ricoperte da un sottilissimo strato opaco di metallo. Su
queste diapositive si disegnavano in anticipo le immagini da mostrare,
incidendole direttamente nel metallo, un po’ come si fa per i circuiti
stampati. Il metallo rimosso lasciava passare la luce, e poi dei filtri
colorati permettevano di tingere la luce proiettata sullo schermo.
Questo permetteva di avere grafici e immagini di grandissima nitidezza, ben
oltre qualunque risoluzione di monitor dell’epoca, e risolveva il problema
delle immagini statiche, per esempio quella del globo terrestre o di un
grafico di traiettoria o dei consumi di bordo del veicolo spaziale. Ma non
risolveva il problema di aggiornare quei grafici con i dati di
telemetria che provenivano dallo spazio e dai centri di calcolo della NASA.
Dettaglio di una porzione del megaschermo principale del Controllo Missione.
La soluzione ingegnosa, anche in questo caso fortemente analogica, fu montare
alcuni di questi sette proiettori su un supporto che permetteva di orientarli.
Questi proiettori avevano delle diapositive metalliche nelle quali c’era
incisa la sagoma dei vari veicoli spaziali da seguire, e il loro puntamento
era comandato dai dati che arrivavano dal centro di calcolo della NASA
[l’adiacente Real-Time Computer Complex, descritto in italiano
qui da Tranquility Base], pieno di grandi computer IBM 360, che elaboravano i dati trasmessi dal
veicolo spaziale. In pratica, invece di aggiornare l’intera immagine come si
fa con i normali monitor, veniva semplicemente spostata la diapositiva che
raffigurava il veicolo e lo sfondo restava fisso.
Ma i grafici e le traiettorie andavano disegnati e aggiornati man mano, e
quindi questo trucco di spostare la sagomina, per così dire, non bastava. Così
la NASA adottò un trucco ancora più elegante: una testina di diamante, simile
alle puntine dei giradischi, comandata da dei servomotori sugli assi X e Y,
incideva la diapositiva, rimuovendo lo strato metallico opaco e facendo
passare la luce del proiettore attraverso la zona incisa.
Sì, le immagini venivano letteralmente incise, formando simpatici
truciolini metallici, spazzati via da delle potenti ventole. Quindi quando
vedete nei documentari di quel periodo che il tracciato grafico della
traiettoria di un veicolo spaziale si aggiorna, è perché
la diapositiva veniva grattata. Semplice ed efficace, anche se
ovviamente non era possibile rifare e correggere.
Sono tutte tecniche in apparenza semplici, una volta che qualcuno le ha
escogitate, ma soprattutto sono tecniche che rivelano una lezione troppo
spesso dimenticata nell’informatica di oggi: invece di usare potenza di
calcolo a dismisura e risolvere tutto con il software per forza bruta,
conviene esaminare bene il problema e capire prima di tutto quali sono i
requisiti effettivi del progetto.
Nel caso della NASA, quei monitor dovevano mostrare in altissima risoluzione
solo immagini statiche
con pochi elementi in movimento, per cui non era necessario un approccio
“televisivo”, nel quale l’immagine intera viene aggiornata continuamente. Per
le immagini televisive vere e proprie c’era l’Eidophor; per tutto il resto
bastavano diapositive metalliche e una puntina di diamante che le grattasse.
Sarebbe bello vedere applicare questi principi, per esempio, all’intelligenza
artificiale. Il modello di oggi delle IA è forza bruta, con impatti energetici
enormi. Ma ci sono soluzioni più eleganti ed efficienti. Per esempio, se si
tratta di fare riconoscimento di immagini di telecamere di sorveglianza, non
ha senso fare come si fa oggi, ossia mandare le immagini a un centro di
calcolo remoto e poi farle analizzare lì da un’intelligenza artificiale
generalista; conviene invece fare l'analisi sul posto, a bordo della
telecamera, con una IA fatta su misura, che consuma infinitamente meno e
rispetta molto di più la privacy.
Ma per ora, purtroppo, si preferisce la forza bruta.
Fonti:
Large screen display for the Mission Control Center, NASA, 1989;
Plasma display, Wikipedia;
How Does a Jumbotron Work?, ThoughtCo, 2019;
Watch those men on the Moon, ETHZ.ch, 2019;
Der Eidophor-Projektor, ETHZ.ch;
Viel Licht für grosse Leinwände – Der Eidophor, ETHZ.ch, 2015;
Handwiki.org; Eidophor – der erste Beamer, Ngzh.ch, 2018;
Apollo Flight Controller 101: Every console explained, Ars Technica, 2019.
Scritto da Paolo Attivissimo per il blog Il Disinformatico. Ripubblicabile liberamente se viene inclusa questa dicitura (dettagli). Sono ben accette le donazioni Paypal.